Il romanzo Giorni neri, rieditato del 2021 con La nave di Teseo, è ambientato nel 1944 ed è molto interessante rileggerlo proprio in questo anniversario. Quest’anno infatti ricorrono gli 80 anni  dal quella estate del 1944 tristemente famosa per gli eccidi che hanno funestato pesantemente anche la Versilia.  Ottanta anni fa come ora Catarsini  era già sfollato a San Martino in Freddana e concludeva gli affreschi nella chiesa; temeva per la vita sua e dei propri cari, per il futuro di tutti. E il futuro, per chi ha vissuto la guerra, era racchiuso in una semplice parola di sole quattro lettere, PACE. 
L’anno prossimo saranno 80 anni dalla Liberazione- Dopo gli orrori e le devastazioni della guerra,  per noi italiani iniziavano 80 anni ininterrotti di pace.

GIORNI NERI di Alfredo Catarsini: il colore negato
Il titolo del romanzo del pittore e scrittore contiene fin dal titolo un colore.
Ma si tratta in realtà di un’assenza di colore, dalla quale tutte le tinte sono scomparse, cancellate dalla “sintesi sottrattiva”- questa la definizione tecnica – che ha per risultato la mancanza totale di luce, il buio assoluto, la tenebra paurosa. Un’ancestrale metafora dell’oscurità interiore e quindi del Male.
I “giorni neri” sono infatti quelli della Seconda guerra mondiale nei terribili ultimi tempi dell’armistizio, del passaggio del fronte, della resistenza partigiana, descritti da Catarsini in forma di romanzo attingendo al suo vissuto personale di sfollato in Val Freddana: di uno sfollato operoso, che dipingeva sui palchi dell’abside della chiesa di San Martino gli affreschi tuttora visibili nell’abside. Da questo osservatorio racchiuso nel breve giro di alcuni monti e poggi, costellati di chiesette e casette, di boschi e poderi, di sentieri e di torrenti, simbolicamente convergenti attorno a una non meglio descritta ma temuta Filanda – sappiamo d’essa solo che è cinta da un muro di mattoni rossi (p. 300) – dove sono acquartierati i soldati tedeschi.
Si potrebbe pensare che, posato il pennello del pittore, Catarsini abbia intinto la penna di memorialista e romanziere nella medesima tavolozza di tinte smaglianti. E invece, nella sua prosa schietta in cui prevale la forma dialogica tra i personaggi principali e secondari, i colori sono evocati con parsimonia, le tinte sono austere, i toni ombrosi, salvo alcune eccezioni, poche ma piene di significato. Come se gli abitati e le persone e la natura stessa, sotto l’ombra permanente della tempesta di paura e di dolore addensata sui luoghi e nei cuori, andassero progressivamente a sbiadire tendendo al livido, allo scuro, fino al nero appunto. “Il loro tragico mondo – scrive Catarsini contemplando con pietà i suoi protagonisti – si faceva sempre più chiuso, più tenebroso” (p. 49), e in quelle inquiete giornate perfino la luce solare diventava “torba” (p. 87). “Giorni penosi, duri, neri” è la sintesi che dà il titolo al libro (p. 166), “neri e duri” (p. 216) sono i momenti più difficili della piccola storia locale, che si inserisce nella grande storia in corso come la piccola ma non meno necessaria tessera di un più vasto mosaico.

Se Giorni neri fosse un quadro, sarebbe un severo monocromo, percorso da sottili vibrazioni tonali e punteggiato da misuratissime note di colori squillanti, verde o rosso. Appena – ma poco – più vivace di Guernica, il capolavoro in bianco e nero sfumato di grigio e sabbia, col quale Pablo Picasso commemorò le tragedie della guerra civile spagnola. Vediamo dunque qualche esempio di questo dosaggio verbale dei colori, così parco da sorprendere in un artista come Catarsini, uso a esprimersi dipingendo con gamme cromatiche vivide e pastose.
È un quadretto post-macchiaiolo quello che apre la prima pagina. Un cavallo con la bava “bianca come saponata“, un carro, la strada bianca anch’essa sotto il sole tiepido, fra grano e vigne, le poche ombre: la luce meridiana trasmette attraverso il pur breve giro di frase un’impressione di chiarore, ma la rustica serenità non è che un’apparenza destinata a una breve durata. Ritroveremo solo molto più avanti una situazione macchiaiola, in una rara pausa di serenità contemplativa: “nel bosco […] cominciava a filtrare il sole, talora distendendovi luci vive che pestavano con i piedi ” (p. 316).
Invece, fin dalle prime pagine l’alternanza di bianco e di nero si afferma come il motivo dominante, che in variazioni innumerevoli si esprime come contrapposizione di luce e d’ombra, di diurno e di notturno. Sotto la sorveglianza dei maestosi monti apuani “ricchi di marmi bianchi” (p. 16) si raccoglie l’umanità misera e dolente degli sfollati, che incontra quella non meno misera e dolente degli abitanti locali, in un transito di truppe di tutti gli schieramenti ormai appiattite e anonime, così da esser rapidamente tratteggiate come “masse nere di uomini“(p. 19). E subito il contrasto si ripropone in piccola scala, con le “narici nere” e gli “umori biancastri” del muso equino. Anche il cane bastardo è bianco e nero (p. 32). Le nuvole sono bianche (p. 33), le camicie dei fascisti sono nere (p. 40), la terra d’uno spiazzo è nera (p. 51), nero è il fumo puzzolente d’una pessima sigaretta (p. 55). Neri sono i crocifissi lignei offuscati dal tempo, affumicati, forse patinati dal passaggio di mani devote per generazioni (pp. 173, 270), nero il paramento chiesastico di velluto (p. 175).
Tanto più, dunque, risalta la pennellata vivida di un viso bonario – quello di Venanzio – “colorito come l’aragosta” (p. 21) e poco dopo la “faccia laccata di rosa” di un soldato tedesco (p. 28): due note squillanti, che irrompono nello scenario monocromo con effetti diversamente grotteschi, il rosso del vecchio sfollato paragonato a un crostaceo, il rosa del militare forestiero probabilmente ispirato a un maiale. Di un vecchio vien descritta una singolare bicromia: “fronte terrea, faccia strinata dal sole” (p. 129). I biondi soldati delle SS sono “rosei come una mela” (p. 197) e uno perfino rosso, anche lui, “come un’aragosta” (p. 275). La mano d’un altro soldato tedesco è “bianca, pallida” (p. 173). Triste, invece, l’incarnato “cianotico” d’un giovanotto striminzito (p.33), tragico il colorito “livido” d’un impiccato (p. 223). È “malaticcia” perfino la faccia delle stelle (p. 305).
I capelli degli ex alleati, divenuti nemici dopo l’8 settembre, sono d’un biondo “ariano” (p. 174); un tenentino li ha “come stoppa” (p. 260).
È un’umanità anchilosata, storpiata al limite della caricatura, quella che sfila sotto gli occhi di Catarsini, o che abbia i tratti deformati dalla miseria atavica delle genti di montagna e di mare, o che presenti la fisionomia barbarica dei popoli nordici, freddi di pelle, d’occhi e di capelli, gelidi di cuore. I colori stessi che la caratterizzano, col progredire della storia, divengono incerti e torbidi: bluastri gli occhi, biancastra la pelle.
Lui, lo scrittore, guarda quell’umanità dolente da pittore, inserendo nella trama un anonimo sé stesso in rare comparse, veri e propri “camei” in cui viene evocato come “quello che fa i quadri” e si arrampica sui ponteggi per affrescare in chiesa.

La parte propriamente artistica di Giorni neri, Catarsini la esprime nelle tavole di grafica che intervallano il testo. Con linee spezzate e aggrovigliate come fili di ferro maltrattati, costruisce le immagini potenti di uomini, donne (e qualche bestia) impoveriti e provati, ma non domati. Un sacco, uno zaino, un fucile sono gli unici beni che hanno potuto serbare. Ai contadini e agli sfollati, con segno nervoso e sicuro il pittore affianca i militari, non meno sconvolti dei civili, e le sagome patetiche degli impiccati penzolanti. In copertina, una stralunata faccia post-cubista in bianco e nero annuncia la bicromia prevalente nel libro.
È con l’apparizione di Delta, giovane partigiana, che squillano note di grazia, sia pure di una grazia fugace racchiusa in uno sguardo, in una mossa, in un accessorio appena appena femminile. Delta è salutata con una inedita terna di colori decisi: bruni i capelli, grigia la camicetta e rosso il fazzoletto che porta al collo (p. 54). Altri fazzoletti sventoleranno, col vigore di macchie chiare e brillanti capaci di rischiarare le scene sempre più cupe: “bianco di bucato” (p. 80), “bianco a fiorellini rossi” (p. 244), bianco in segno di resa (p. 341); ma solo il fazzoletto rosso di Delta è un simbolo di schieramento politico e di coraggiosa militanza. I suoi capelli d’un nero profondo, “come la pece” (p. 215), diventano il filo conduttore di una contrapposizione fra l’armoniosa bellezza mediterranea e i colori di volta in volta slavati o congestionati degl’invasori d’Oltralpe. Anche il giudizio morale passa attraverso l’applicazione di un canone estetico, secondo il principio greco della “kalokagathìa”, ovvero compresenza di bellezza e bontà, profondamente radicato nella cultura italiana.
Lo scenario continua a proporre quadri monocromi, come un mattino “velato, semigrigio” (p. 195), o una “polvere biancheggiante nel grigiore della sera” (p. 289), con l’occasionale risalto di macchie cupe: nere le labbra intrise di sugo di more (p.178), nere le scarpette nuove di vernice di Delta vestita per sedurre (p. 291), nera una bottiglia misteriosamente murata su un comignolo (p. 289). Le “folte e cupe ombre della notte” incombono minacciose (p. 300).
Bianche però le strade polverose, candida “una chiesetta che pareva fatta di ricotta, tanto era bianca” che si spicca – a sorpresa – dalle tenebre notturne (p. 108): la immaginiamo dipinta con un impasto corposo e luminoso, steso a colpi di spatola sulla tela abbrunata. E una rapida visione geometrica del cammino, che si presenta davanti al gruppetto dei partigiani, ha la potenza austera di un’antica xilografia: “La strada maestra […] era bianca come la morte. Vi scorrevano ai lati delle fosse scure che davano un senso di lutto” (p. 263).
E la natura circostante? Dopo un ameno “prato verde intenso” all’inizio (p. 33), anche l’ambiente, in prevalenza montuoso e boschivo, progressivamente s’infosca. Cipressi avvolti dalle ombre, selve formanti macchie fitte di verde cupo, un leccio che ha una “superba chioma eternamente scura” (p. 122), un altro che è “nero come la notte” (p. 238). “La natura appariva come un moribonda“, dichiarerà più avanti il pittore-scrittore, osservando i castagni “con le fronde precocemente rinsecchite, di un colore pallido, stinto” (p. 346). I prati inariditi sono “quasi gialli” (p. 363).

Senza che il paragone possa dirsi stringente, la tavolozza immaginaria di Catarsini ha qualche tratto di somiglianza con la gamma dei colori e dei toni evocata da Dante Alighieri nel condurre il lettore della Divina Commedia attraverso le angosciose tappe della prima cantica, dedicata all’Inferno. Il verde minaccioso della fitta selva avvolta dalla notte, il sorgere del sole, e poi il graduale inoltrarsi nel percorso infernale con la scomparsa della luce e la prevalenza aggressiva delle tenebre. Rare le pause rinfrancanti, come il prato smaltato d’erbe attorno al castello degli Spiriti Magni – qui, il “prato verde intenso” iniziale (p. 33) -, o i fioretti rugiadosi che salutano il mattino: qui le “margheritine gialle, bianche, rosa” (p. 217). Ben presto invece l’itinerario scende verso cerchi e gironi di crescente cupezza, dipinto a parole da Dante con tutti i toni del nero, del grigio, del marrone, fino al livore scialbo della “ghiaccia” luciferina. Nell’Inferno dantesco, la luce rossa che squarcia le tenebre è quella delle fiamme sempiterne: qui, quella degli effimeri fenomeni atmosferici.
Perché, in cerca di un’aria meno oppressiva, non resta all’artista che rivolgersi al cielo, dove vanno in scena fantasmagorie di luce sovranamente indifferenti ai casi degli uomini. E se anche un’alba può apparire “timida, silenziosa, forse scontrosa” (p. 305), più spesso è soave l’aurora che “tinge di rosa le valli” (p. 276), mentre la gloria suprema del tramonto si esprime in un trionfo di rosso. Così Catarsini rivela sé stesso, con l’espediente di una carta scritta dal pittore sfollato, che uno dei protagonisti, Nando, legge ad alta voce agli altri: “…vedo il sole quando fa capolino dietro la montagna e quando a sera discende verso il mare“; e lo spettacolo del tramonto gli era apparso quella sera “ardente e pieno di fuoco come il sole che se ne andava in un altro mondo” (p. 233). In confronto a questa veduta, che il pittore gode da una sua finestrella a ponente, ancor più vasta e rutilante è l’immagine captata dall’alto, dove lo sguardo gira dalla valle all’orizzonte lontano, oltre i neri profili montuosi: ” Là in fondo c’erano la chiesa di San Martino con la sua antica torre, il mulino con la sua grossa ruota ridotta ormai al silenzio. Il sole intanto batteva i suoi ultimi raggi sul Monte Magno, che gli uomini vedevano ora controluce, mentre dal lato mare infiammava di un rosso aggressivo la pianura dell’intera Versilia” (p. 216). Proprio a quella marina, benevolmente infuocata dal tramonto, corre l’occhio del pittore-scrittore e più ancora il cuore, colmo di struggente nostalgia.
Con la sua tavolozza lessicale – severa, ma capace di fulminee accensioni -, Catarsini ha saputo “dipingere” da par suo gli stati d’animo e le atmosfere di quel terribile frangente, lasciando il romanzo in sospeso e quasi incompiuto. Forse, per far sì che questo suo monito contro gli orrori della guerra continui a riecheggiare indefinitamente nelle coscienze di noi contemporanei.

Cristina AcidiniCatarsini tra pittura e parola, catalogo mostra Il Novecento di Catarsini. Dalla macchia alla macchina pag. 75-79